Cibelli + Guadagno architetti

Architettura Restauro Design

30 maggio 2007

A volte ritornano...

Stamane mi accingevo alla mia prima veloce lettura della Gazzetta del Mezzogiorno, e come di solito avviene, sono andato prima sulle pagine della cronaca locale “Lucera & Preappenino”. Inevitabilmente la mia attenzione è stata catturata dall’articolo sull’arredo urbano nel centro storico di Lucera “Via il totem dal centro”. Inizio a dare una prima scorsa dell’articolo, ma, man mano che proseguivo, ero costretto, incredulo, a rileggere i passaggi appena letti: (riferendosi ai totem) “[…] francamente, più adatti ad un paesaggio industriale, con il loro aspetto grigio e la loro struttura in ferro battuto, che non al centro storico più bello della Capitanata.” [… ]Un autentico restyling attende, quindi, i totem. Obiettivo: renderli più idonei al palcoscenico, il centro storico, dove sono stati collocati.” E ancora: […] Dubbi sui totem, come spiega l’assessore, erano stati sollevati anche dall’ufficio tecnico comunale, che aveva suggerito un intervento con pietra cesellata per dare ai totem il necessario tocco di antico, in linea con il centro storico.La prima cosa che ho fatto d’istinto è leggere la data del quotidiano.

Per un momento ho creduto di essere stato catapultato in un'altra epoca, o magari più semplicemente, di stare sognando; un brutto incubo di quelli che ti sembrano veri: 12 gennaio 2005. Resto per un attimo immobile su quella data, e in quell’attimo, la mia memoria corre indietro nel tempo, al lontano 1927, quando la Commissione di Ornato della città di Como, apre un’inchiesta per stabilire se “la casa costituisca elemento di deturpazione della zona, ed eventualmente se e di quali modificazioni sia suscettibile per meglio armonizzarsi con l’ambiente che la circonda”. La casa in questione era il Novocomum, di Giuseppe Terragni, edificio per abitazioni, uno dei massimi capolavori dell’architettura moderna e di sempre. Inizialmente il paragone mi è sembrato irriverente, ma poi ho capito che i due avvenimenti erano intimamente legati, l’ultimo eco del primo. Come un rigurgito ideologico, stava riaffiorando (o forse non ci ha più abbandonati) quella mentalità retorica, storico-celebrativa, che avrebbe annichilito la produzione artistico-architettonica moderna italiana dei primi decenni del secolo, a cui Terragni, per sua fortuna e nostra sventura, non assistette se non in parte, per la sua prematura scomparsa all’età di 39 anni. Fortunatamente di quella commissione del ’27 non se ne fece nulla, Terragni vinse, ma a quasi ottanta anni di distanza pare che la storia del nostro recente passato e le esperienze del nostro presente non ci abbiano insegnato e non ci insegnino nulla. Il nostro paese sconta un gap culturale enorme nei confronti del resto del mondo occidentale.
L’Italia ha smesso di produrre significativamente cultura in campo artistico-architettonico da oltre 200 anni. L’unica corrente culturale, di un certo rilievo, (Il Futurismo), che ancora oggi trova riscontro in tutto il mondo ma non Italia, ovviamente, dove nacque, ha quasi cent’anni. Fatta eccezione per qualche movimento intorno agli anni ’80, noi assistiamo ad un grande paradosso: quello che ci ha reso grandi, secoli di arte e cultura che hanno ispirato il mondo intero, ci sta distruggendo. Non siamo piu’ in grado ne di gestire l’enorme patrimonio storico-artistico-culturale, ne di farlo rivivere attraverso la sua attualizzazione, siamo anzi immobilizzati dal peso di quella eredità culturale, e da un malinteso senso dell’antico e del classico, che ci è rimasto come vago e svuotato ricordo di forme prive ormai di ogni significato e di ogni legame con la nostra cultura contemporanea.
Mentre in tutto il mondo, si è metabolizzato il concetto di classicità, in Europa come in America (di riflesso naturalmente), e a Parigi negli anni ’90, davanti al Louvre si dava vita ad una delle più significative operazioni culturali dello scorso secolo, con la piramide di acciaio e cristallo di Pei, mirabile segno di stratificazione storica e di vitalità culturale in perfetta continuità con l’eredità storica; in Italia implodiamo, come una stella al termine del suo ciclo vitale, nei nostri ridicoli e patetici tentativi di “dare il necessario tocco di antico, in linea con il centro storico”. Ed è così che si va avanti, attraverso allucinanti paradossi. Ci scandalizziamo dell’ “aspetto grigio e la loro struttura in ferro battuto” ma non facciamo caso agli osceni pali dell’illuminazione pubblica, di identica fattura, ma che la loro forma vagamente “classica” rende accettabili, appagando il nostro malinteso senso del “antico”. Evochiamo i segni della storia, che attraverso i secoli, stratificandosi e affiancandosi ognuno nella propria identità, hanno fatto grandi i nostri centri storici (dai Romani a Federico II fino al 700), ma nel contempo ostacoliamo questo mirabile processo di stratificazione-rinnovamento, impedendo alla nostra cultura contemporanea di confrontarsi con la sua eredità, facendola rivivere attraverso il suo rinnovamento; preferiamo ghettizzarla ai margini della città e di fatto, la uccidiamo.
Vi siete mai chiesti se i mirabili esecutori del settecentesco Palazzo Vescovile, si siano mai ispirati alle forme e agli spazi romanici della Cattedrale che avevano di fronte, o piuttosto avessero semplicemente espresso la cultura contemporanea del proprio tempo, distante anni luce da quella che aveva ispirato i maestri dell’opera del duomo, dando vita ad un capolavoro così mirabilmente “adatto” pur nella sua dissonanza con l’intorno preesistente. Siamo vicini ad un punto di non ritorno: se non riusciamo ad accettare un oggetto di arredo urbano vagamente “moderno” come possiamo pensare di tornare a stratificare nei nostri centri storici e non? Mentre nel resto del mondo occidentale, altrettanto ricco di storia e cultura, come in Francia, Austria, Spagna, Germania, si va già oltre il concetto di integrazione tra classico e contemporaneo, con le architetture del non-luogo, noi restiamo irretiti nei nostri micragnosi tentativi di “dare il necessario tocco di antico, in linea con il centro storico” palesando tutto il nostro provincialismo culturale. Come possiamo essere nel contempo tanto “acuti” osservatori e paladini dei nostri centri storici, e tanto miopi da non accorgersi che se ne sta distruggendo e mistificando l’immagine, ad esempio, attraverso l’opera sistematica di decorticazione delle murature a sacco, o con il proliferare di balconate selvagge, sempre per quel malinteso senso dell’antico, o peggio, del ripristino capotico?
Se “adeguare al centro storico” equivale a “mimetizzare”, “mistificare”, non produce nessuna autenticità, anzi si prende in giro la nostra stessa tradizione.
Gennaio 2005


Repetita iuvant